Nel periodo prefascista i partiti politici italiani avevano assicurato, mediante una risoluzione approvata in Parlamento, il diritto delle varie minoranze nazionali alla propria lingua, cultura e religione. Con l’avvento del fascismo al potere vi fu tuttavia un radicale cambiamento, in quanto l’esistenza stessa di minoranze si poneva in antitesi con la dottrina fascista. La sua politica snazionalizzatrice si fondava infatti sulla negazione di altre nazionalità entro i confini dell’Italia, oltretutto creati artificialmente con il concorso dei precedenti governi stranieri, per cui con mezzi legali cancellò ogni traccia esteriore dell’esistenza di altri gruppi nazionali. La classe dirigente della minoranza, cioè il ceto medio e gli intellettuali, venne dispersa. Faceva eccezione il clero, che da allora sembrò rappresentare l’unico vero ostacolo all’assimilazione. Nel 1931 si diede inizio a una politica di colonizzazione che aveva lo scopo di portare a termine il processo di italianizzazione. I contadini slavi furono ridotti sul lastrico, anche facendo leva sulla loro povertà. Una simile politica di snazionalizzazione venne portata avanti dall’Italia tramite gli organi di stampa, gli istituti scolastici, gli enti sociali, i sindacati e le organizzazioni politiche.

















