Il merletto è un prodotto tessile trasparente, dall’aspetto traforato o a rete che si ottiene con le tecniche del ricamo, del cucito, della maglia o del crochet lavorando fili di lino, cotone, seta oppure sintetici con fuselli, ago, navetta o uncinetto – è però realizzabile anche a macchina. La nascita dei merletti si deve a finalità puramente pratiche, in quanto iniziarono ad essere realizzati come elemento di rifinitura per evitare che l’orditura del capo in questione si sfilacciasse. Fu poi in epoca rinascimentale che l’abilità nel ricamo raggiunse l’apice nell’ambito di corti e conventi (in questo secondo caso con riferimento alla decorazione dei paramenti liturgici), estendendosi nel corso del Seicento anche agli ambienti borghesi. Diffusosi rapidamente in tutta Europa, il ricamo in filigrana raggiunse i Paesi Bassi, e più precisamente le Fiandre, in un momento in cui le maestranze locali già lavoravano filati meno grossolani e proprio l’impalpabilità di questi tessuti favorì la nascita della lavorazione a tombolo. L’arte merlettiera prevede svariate tecniche e tutte prendono nome dalla rispettiva località d’origine: si parla, ad esempio, di merletto veneziano, valenciennes, di Idrija ecc. Al culmine del Rinascimento il merletto si emancipò dal supporto del tessuto, affermandosi anche come lavorazione autonoma.

I merletti a tombolo o ad ago di fattura cinquecentesca, dai motivi rigorosamente geometrici, erano un quanto mai apprezzato accessorio del vestiario borghese, comparendo ad esempio sui colletti rialzati o sui polsini delle maniche. In epoca barocca questo rigore geometrico andò scemando, come tempo dopo anche i pippiolini lungo i bordi. I merletti si fecero sempre più autonomi, caratterizzati da un unico motivo predominante che nella maggior parte dei casi assumeva i contorni di un lussureggiante mazzo fiorito. Le trine ad ago di tipo italiano e francese erano molto simili ai merletti a fuselli realizzati nelle Fiandre o in Belgio e difficilmente si riusciva a distinguere tra le due lavorazioni. Ormai in auge, i merletti inondarono la Francia del Seicento e la domanda era così pressante da indurre nel 1660 a istituire una manifattura reale nella cittadina di Alençon. Nel frattempo raggiunsero livelli di eccellenza anche altrove in Europa, trasformandosi in una merce pregiata ed esportabile nelle terre straniere. In epoca rococò gli schemi si fecero sempre più minuti e i motivi miniaturistici, con un dilagare di ghirlande ed elementi fitomorfi e un progressivo scemare di rilievi e ornamenti di grandi dimensioni. Durante l’età napoleonica iniziarono a comparire forme più pacate e semplificate in stile impero, con una predominanza di esili fiorellini, reti trasparenti con piccole puntinature e bordi pressoché privi di pippiolini – da notare, tra l’altro, che lo stesso Napoleone rese obbligatorio l’uso dei merletti nell’abbigliamento cerimoniale di corte.

Nel Sei e Settecento i merletti era realizzati a mano, nella maggior parte dei casi con filati di lino, mentre a partire dal 1830, in concomitanza con la graduale diffusione dei merletti meccanici, divennero comuni i filati di cotone. In quello stesso periodo si iniziò a produrre con i nuovi macchinari a disposizione il tulle, un tessuto dalla trama finissima e trasparente di lana o seta che sembrava fatto apposta per essere impreziosito da merletti ad ago o a fuselli.

I merletti conservati nella collezione tessile del Museo regionale di Capodistria sono di varia fattura: alcuni sono realizzati a mano con tecnica a fuselli, ad ago, a uncinetto o a filet, altri invece sono frutto di una tecnica mista (es. merletti ad ago combinati con merletti a fuselli o meccanici).

 

I ricami sono lavori ornamentali eseguiti su tessuti di vario tipo a mano, con ago e filo, quest’ultimo di seta, cotone, lino o lana, ed eventualmente impreziositi da applicazioni o elementi decorativi come perline di vetro colorate o trasparenti, lustrini oppure fili metallici, d’oro, d’argento o di seta. Vista la preziosità dei materiali e la precisione richiesta nella lavorazione, nel Medioevo erano indicativi del prestigio di chi li indossava, tanto da essere appannaggio dei soli sovrani e delle più alte cariche della Chiesa e dello Stato. All’epoca erano di norma realizzati dagli ordini religiosi femminili, ma già nel tardo Medioevo sorsero le prime corporazioni e anche le gentildonne iniziarono a darsi all’esercizio della nobile arte del ricamo. Nel corso del Seicento i ricami presero a ornare anche l’abbigliamento civile, comparendo dapprima sugli indumenti dei nobili, poi dei borghesi e infine sui pregiati complementi d’arredo tessile che ne adornavano le dimore. Con l’avvento del sistema scolastico nel 1869 il ricamo entrò a far parte, insieme ad altre competenze manuali, dei curricoli obbligatori per le allieve di qualsiasi estrazione sociale. Le giovani ricevevano un pezzo di stoffa – in sloveno vajenica – e lo usavano per far pratica ricamandoci vari punti e altrettanto vari motivi, tra cui non mancavano mai l’alfabeto, i numeri fino a dieci, l’anno di realizzazione e infine il nome o il monogramma della ricamatrice. La modalità di ricamo è riconoscibile dalla tecnica usata:

  • una è quella a fili contati, che prevede cioè l’esecuzione di punti croce, punti tela, punti a giorno, sfilature e punti gobelin su stoffe a trama meno fitta;
  • l’altra è quella su disegno, che prevede per l’appunto la scelta di un disegno o schema su cui eseguire punti semplici, punti obliqui, punti erba e punti catenella, come anche punti nodini o rilievi, ricami a intaglio e applicazioni, nel qual caso si prediligono tessuti a trama fine.

In area istriana e triestina i ricami più pregevoli si trovavano in particolare sul fisciù che le donne portavano in testa lasciandolo ricadere anche su schiena e petto, parte dell’abito tradizionale di tutti i giorni e anche di quello delle feste. Nel corso del tempo l’arte del ricamo divenne un piacevole passatempo anche per le donne dell’entroterra rurale e le ragazze in età da marito, laddove le prime ricamavano per le necessità di casa e le seconde per farsi il corredo – bala in sloveno.

»Imparaticcio«, 1804